In concomitanza con la pubblicazione del suo ultimo libro – La città scritta, edito da Quodlibet – abbiamo raggiunto Stefano Boeri (Milano, 1956) per una breve ricognizione sulla sua attività: dalla sfida lanciata in queste ore da Scali Milano fino ai suoi cantieri attivi in tutto il mondo. E c’è chi lo propone per il Pritzker Prize 2017.
Partiamo subito dall’attualità. Nei giorni scorsi il Presidente della Repubblica Mattarella si è recato in visita alle zone terremotate. A che punto è il refettorio che sta realizzando ad Amatrice, grazie alla raccolta fondi promossa dal Corriere della Sera e dal TGLa7?
Stiamo cercando di concludere l’opera per Natale. Abbiamo deciso di vincere questa sfida, per poter ospitare il 23 dicembre la cittadinanza in questa nuova architettura. Certo, mancheranno gli arredi, ma la struttura sarà completata. È una sfida bellissima, perché serve a dimostrare – e a ricordarci – che il legno è un materiale straordinario, leggero, elastico. Permette una velocità di costruzione incredibile. Abbiamo lavorato con la Filiera Legno Friuli Venezia Giulia e anche questo è un segno: l’Italia tutta si ritrova ad Amatrice, un modo per stringerci intorno a questa comunità ferita.
Ha appena pubblicato La città scritta, un saggio che prende avvio dalla sua tesi di dottorato e ripercorre il pensiero di Carlo Aymonino, Vittorio Gregotti e Aldo Rossi, con un’opera-manifesto per ciascuno. È frutto di una lunga gestazione: una scelta, a livello di metodo, per dare il più ampio respiro possibile alla loro lezione?
Credo che oggi vediamo con ancora maggior chiarezza l’importanza del contributo di questi tre architetti, in particolare nell’aver costruito un vocabolario con cui noi parliamo della città contemporanea: sono loro ad aver concepito le parole del nostro vocabolario. In secondo luogo, hanno generato anche un atteggiamento, fondando il progetto di architettura sull’interpretazione della città. Così facendo, rendono anche ora la nostra una pratica più consapevole, più fertile e quindi efficace.
Oltre a osservare questi tre architetti a partire dal quartiere Gallaratese di Milano, dall’Università della Calabria e dal cimitero di Modena, nella sua analisi ingloba anche i loro libri: Il significato delle città di Aymonino, Il territorio dell’architettura di Gregotti e L’architettura della città di Rossi. Con quale intento?
La tesi di dottorato si interrogava, negli Anni Ottanta, sui libri scritti negli Anni Sessanta. Noi oggi siamo in una situazione davvero diversa, dal punto di vista dei fenomeni urbani, ma richiamare quei volumi è un modo per ricordarci che è arrivato il momento di metterci a interpretare la città.
Possiamo considerare quanto è avvenuto la scorsa settimana con Scali Milano (l’iniziativa pubblica promossa da FS Sistemi Urbani – Gruppo FS Italiane – in collaborazione con il Comune di Milano per riflettere sulla riqualificazione di sette scali dismessi) come un’operazione da inserire in questo auspicato quadro di rilettura della città?
Senza dubbio. Siamo di fronte a un sistema infrastrutturale di fine Ottocento/inizio Novecento che è stato completamente assorbito dalla crescita di Milano: oggi offre un’opportunità unica per immaginare un nuovo tipo di centralità. Milano è una città monocentrica, con un’unica grande piazza-radura nel suo cuore. Il sistema di questi 7 scali – complessivamente di un milione e 250mila metri quadrati – potrebbe diventare, nella mia idea, un “fiume verde”, capace di cingere l’intero corpo intermedio dell’area urbana, comprendendo zone che sono tra il centro e i borghi esterni.
Un “fiume verde” con iniziative per la comunità?
Sì, assolutamente. Nella mia ipotesi, dovrebbe diventare un sistema di nuovi luoghi, di nuovi centri, dove dare spazio alle esigenze principali di questa parte di Milano “un po’ trascurata”: fin qui abbiamo lavorato moltissimo sul centro della città. In questo “fiume verde” penso a spazi per la cultura, a residenze degli studenti, a luoghi in cui sviluppare nuove tipologie di artigianato o tecnologia, a spazi per la sanità e la cura del corpo e a molto altro ancora. I bordi di questo “bosco lineare” potrebbero diventare gli edifici della Milano futura, con servizi, attività e residenze.
Il 2017 è alle porte. Dalla Cina a Tirana, qual è lo stato dei lavori che sta seguendo con il suo studio?
In questo momento siamo già in cantiere in 4 edifici in Cina e stiamo partendo con il progetto della Forest City a Shijiazhuang. Si tratta di un’intera città con più di 150 edifici che hanno come modello il Bosco Verticale, anche se presentano un’altra destinazione, perché saranno scuole, ospedali e altro ancora. I cantieri aperti sono a Guizhou – con il Mountain Forest Hotel e il 10 thousand peack valley –, a Pechino, dove sorgerà un grande showroom del design italiano, il Sino Italy Design Center, e a Nanjing: qui realizzeremo una coppia di Vertical Forest. Il progetto di Losanna sta andando avanti, mentre a Tirana stiamo concludendo il masterplan; abbiamo anche una serie di progetti in corso in altre parti del mondo, in diverso stato di avanzamento e ugualmente importanti.
Si fa anche il suo nome per il Pritzker Prize 2017 nel sondaggio di fine anno di archdaily.com….
Sì, sono uscite queste candidature: siamo un gruppo numeroso e per me è un grande onore essere inserito in quella rosa. È molto bello essere in quel gruppo, un riconoscimento più che sufficiente!
Fonte: http://www.artribune.com/
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